L’amore deve rifulgere al di là di ogni cosa… Carceri e disavventure non lo costringeranno in un angolo come un pugile che subisce l’avversario sul ring “della vita”. Anche il sogno è vita e il sogno non accetta nessun ricatto. Esso passa attraverso il dolore e le lacrime. Nessuno potrà farne a meno, incatenato dal tempo che fugge inesorabile. Il primo messaggio de “Il cavaliere di Alcatraz” di Stefano Falotico sembra essere questo. Il secondo è quello dell’eterna bellezza, che va al di là dell’eterna giovinezza.
Il terzo è quello della libertà che viaggia su “ali dorate”, assurde, imprendibili, impalpabili, evanescenti, sfuocate. Il freddo mese di novembre non scuote le radici dell’amore e della libertà. Viene domato da questi istinti che si tramutano in sentimenti. Eppure la vita ha il suo lato di terrore, una specie di pianeta che ci perseguita tutta la vita. Stefano Falotico lo sa bene e non lo nasconde assolutamente. Lo intravede e lo esamina, penetra in profondità e, in un certo senso, ne resta sorpreso. Vuole svegliarsi ed ammirare qualcosa di diverso, di nuovo, di “assoluto”, in un mondo pur sempre condannato al relativismo, che rischia di farti morire nell’anima. È la durezza della vita che forgia anima e mente, cuore e destino. Alcatraz accoglie nelle sue fameliche braccia Clint, un protagonista “antagonista di se stesso”. Un uomo guarnito di “ex”: “ex barista, ex gonzo, ex nel rodeo dei suoi cavalli nel cervello”, un gelido guerriero (come afferma l’Autore), che non è il “pallido delinquente” di F. W. Nietzsche. È casomai un eroe chiamato a rispondere alle avversità della vita e che, forse, non cerca redenzione, ma nemmeno si converte al “peccato”, perché chi lotta non conosce peccati, ma solo il metodo di superare gli ostacoli, vincerli e convincersi della sua “superiorità”. L’eroe sublime potrà fare a meno perfino delle donne, o, almeno, le osserverà con animo sereno e senza sentimenti di vendetta, nemmeno per torti “da subire”, “in divenire”. La bellezza sfuma come neve al sole, ma l’eroe vince i tempi, sfida i millenni, sopravvive impavido a se stesso: nemmeno quattro fredde sbarre lo impressionano. È il Cavaliere di Alcatraz, a cui ogni pena è incredibilmente “superflua”, seppur consona al suo agire. “Or leva su, vinci l’ambascia con l’animo che vince ogni battaglia” (Dante).
Clint è l’agnostico del Duemila? Clint impersona l’ateo? E, forse, in tutti gli uomini non insistono tali “sentimenti”? Chi si pone prono di fronte a una fede? Chi rinuncia a se stesso? Chi non rivendica la sua libertà d’essere e di pensare? Anche il diavolo reclama la sua parte, scende sulla Terra. Anche il diavolo accetta un condominio con ogni dio. Gli dei sono sempre mutati nel tempo, mentre il diavolo ha conservato se stesso, la sua integrità, la sua incredibile coerenza: un paradosso assurdo, eppure immanente e penetrante in ogni pensiero. Il diavolo non accetta manomissioni al suo pensiero. Gli dei hanno sempre mutato pensiero, fin dalle tavole di Noè. Il diavolo ha paternità e maternità: è il primo ideale “ermafrodita” della storia “biologica” dell’uomo. Perfino un dio “buono”, che “volse” il tempo in rintocchi, Crono, divorava i suoi figli, sicché lo scorrere del tempo era rattristato dalla sua avidità felina. Clint è, invece, sincero, confessa a se stesso il suo agnosticismo e resta sulla “soglia della vita”, come sulla soglia di un carcere. Clint incontra il suo “alter ego”, Nick “vagabondo nel suo “vaneggiar” ardito. La data dell’incontro non è casuale. È il mese freddo dei morti, una triste serata, segnata da un numero usato dall’immaginario come simbolo nefasto: è il 17 novembre di un anno della nostra era. Per rendere il paradosso della vita, l’Autore si serve di figure retoriche trasferite in esseri viventi, in celebrità artistiche, anch’esse incantate dal “sogno di Alcatraz”, dal sogno della perenne prigione della vita. Il sesso passa attraverso un “calvario immaginifico”, che descrive un impervio percorso orografico, che si perde all’orizzonte sfumato dei sentimenti repressi, mentre l’Autore evoca immagini scritte così profonde da richiedere un’eccelsa ortofonia, che è sostanziale ed apre ad un nuovo stile sintattico-grammaticale. Ciò non è scandito da sordo esibizionismo stilistico, ma dalla stretta necessità di rendere, attraverso lo stile innovativo, la profondità dei pensieri, perché il “traffico” dei pensieri è talmente intenso nell’Autore da indurlo a “parole” che escono dal “seminato letterario”.
Non mancano immagini toccanti (notte sulfurea, le nostre urla che piangono, etc.). Ad Alcatraz, fra tanti “mezzi e mezzi”, giunge infatti un vero Cavaliere, un Uomo (“U maiuscola un po’ di tutto”). Ma Alcatraz non la merita nessuno: né forte, né debole. Ma, forse, nessuno merita la vita e la sofferenza che incide in se stessa. Sembrerebbe paradossale: anche la sofferenza deve essere meritata. Clint l’ha meritata. Ha avuto un percorso tortuoso, nel suo “innatismo congenito”, nella sua “isotipia”, che non si coniuga ad alcun essere solido e pensante. È una “cosa” a sé, che si rifugia nella latebra del suo spirito inesauribile. Solo un grande Dio potrebbe indicare una via diversa, come la indicò a Mosè nel celebre passaggio sul Nilo. … e quando Alcatraz sarà trasferita negli sconvolgenti ricordi, vi sarà un “Jack Nicholson”, che imbastirà una danza da nano, da “nano sulle spalle di un gigante”. Sarà il preludio alla liberazione degli schiavi, il ponte verso una “nuova vita”, verso la mutazione. L’uomo, prima servo e poi cammello che reca i suoi enormi pesi, si libererà dei suoi fardelli e sorriderà alla vita. Ma quanto gli è costato questo “sorridere”?… Perfino l’ira reca i germi del sorriso, in un percorso che dal pessimismo giunge all’ottimismo “storico-morale”. Un messaggio pluridimensionale quello di Stefano Falotico, scrittore raffinato ed elegante, che non tralascia mai l’esame psicologico di eventi e fatti e di personaggi inediti e particolari che sembrano scolpiti nella “roccia” della sua Opera.
Eliano Bellanova Direttore della Rivista IL FARO ITALIANO