Eliano Bellanova recensisce Il cavaliere di San Pietroburgo

Eliano Bellanova, Il cavaliere di San Pietroburgo

La Corte russa di San Pietroburgo all’epoca dell’Imperatore Nicola II, l’ultimo Zar travolto dalla Rivoluzione bolscevica, era definita un “giardino di ciarlatani”. Tuttavia conservava intatto il ruolo di grande capitale di un Impero che volgeva alla fine. San Pietroburgo e Vienna erano capitali di due grandi Imperi che avevano segnato e… sottolineato la storia. Ambedue erano città pregne di misteri e, mentre Vienna aveva visto uscire il feretro di Francesco Giuseppe, “colpevole” di aver regnato ben 68 anni, San Pietroburgo vide uscire, sotto la forzata “deiscenza” scatenata dall’impulso rivoluzionario, Nicola II e tutta la famiglia Romanov, per finire i loro giorni ad Ekaterinburg sotto il colpi dei rivoluzionari proletari. Imbevuti di teorie marxiste-leniniste, i rivoluzionari di “Ottobre” travolsero i resti di quello che fu uno dei più potenti Imperi del mondo. … San Pietroburgo è il simbolo dell’estremismo, delle tenebre e del crepuscolo per il Cavaliere, che fugge da Alcatraz alla ricerca di una nuova dimensione: latitudini e longitudini diverse che sembrano mirabilmente intersecarsi, contro ogni logica geometrica, astronomica e geofisica. Clint, il personaggio che oscilla fra la determinazione e la “funambolia”, approda in un’aurora boreale di sogni “travasati” in una natura che coniuga mirabilmente il sacro al profano.

“San Pietroburgo, la città dei segreti imperscrutabili, il crocevia di tante marmoree storie angeliche e madre d’altrettanti diabolici sotterfugi gelidi, la città di Cristo crocifisso al centro magmatico del nostro pazzo, stupendo mondo stravagante, del suo “menestrellante” esser sfera vitale, primigenia mela d’ogni originario, inviolato, original Peccato di Dio l’Altissimo e intoccabile” – così, in un tratto di penna “artistico” l’Autore scolpisce sul “marmo del suo libro” l’antica, fascinosa città, che un tempo si era opposta, come invalicabile baluardo, alle invasioni d’oriente e d’occidente, dimostrandosi un crocevia di scontri e incontri d’ogni genere. Il neo-Artù, Clint, il Cavaliere epico senza macchia e senza peccato (come si sarebbero espressi i cantori del Medioevo) è il messaggero di una “sua divina” libertà, che passa “impunemente” dalla verminosa periferia alla catarsi delle chiese, della crocifissione di Gesù Cristo. Clint passa dall’osservazione all’annunciazione profetica, dal “grigio quotidiano” ad un “aldilà immanente”, perché egli, forse, non è né ateo, né credente, né scettico, né bigotto. È uno spirito libero e gli spiriti liberi, quando passano all’azione, rischiano perfino il carcere, come un “Cristo in mutande”, che, teso all’estremo, non sopporterà soltanto la croce, ma anche una specie di trapasso nella “luciferazione”. Il passaggio è reso dall’Autore sotto forma di favola e, forse, è la prima volta nella letteratura che la filosofia “trasmigra” nella favola: un modo semplice e complesso di trasferire il pensiero presso “l’inclita e il volgo” senza alcuna differenza fra loro. E siccome la vita è danza e musica, la tempesta ormonale per Stefano Falotico passa attraverso la danza e la musica, dove il corpo “si intellettualizza” per divenire armonia proibita e sensualità materiale e morale. Nello scorrere degli eventi scorgeremo anche l’illogica “logica” del delitto, una sua ragion d’essere “assurda” e struggente, fino alle tentazioni, al peccato e, infine, all’astrazione. … perché, dopo tutto, l’uomo è un’astrazione, un pensiero-mezzo, una partenza e un arrivo, i cui confini non sono definiti, neppure dalla “fine della notte”.
Quando i discepoli chiedono a Clint dove siano diretti, ottengono la controversa risposta della mancanza di una direzione esatta, perché nella vita non c’è una direzione esatta, se non nel momento in cui essa sia asservita alla mediocrità e alla monotonia del quotidiano “stanco”. La risposta stende mura invalicabili di fronte al reale pensiero del Cavaliere, forse perché egli comprende che il popolo non è chiamato a capire, ma a seguire. Se il popolo, infatti, fosse indotto a “capire”, il cammino dell’umanità si arresterebbe per troppo tempo, tarpando le ali al progresso e al pensiero stesso. … e cosa resterebbe della comprensione, dell’intelligenza, del lungo cammino, se non il “vulcano demoniaco” (S. F.), il Cristo che si rivela come un nano, forse come un “nano sulle spalle di un gigante”?… anche nella Creazione vi sono enigmi, frammenti, un insieme di “raccolte” lungo il cammino della nostra esistenza. Il Cavaliere di San Pietroburgo raccoglie e lascia per la via, si purifica in una catarsi “estrema”, … egli il Maestro, la Verità “sommersa”, il destino vagante nella notte e “speculante” nel giorno, come un neo-Diogene, che vaga e cammina… compie… … il cammino costante che conduce alla “fine, la morte, la sepoltura e l’inizio della nuova speranza”. … ma le sacre scritture hanno detto forse tutto questo? E la congiunzione fra l’ateo, il profano, il credente, il bigotto, il sognatore, lo scettico… non passa attraverso fughe, misteri, fraintesi (la stessa vita non è forse un frainteso?). E la libertà… non è, a sua volta, un frainteso? E la virtù non è forse noiosa e pedante? E la follia non esprime forse la natura intimamente irrazionale dell’uomo? È necessario essere “Cavalieri” per fuggire dal quotidiano del “serpente” per accettare il cangiante evolversi delle aquile. La montagna e l’abisso… non sono forse due facce della stessa medaglia? E quando avremo scoperto tutto ciò… non troveremo che Clint – con le sue follie, i suoi paradossi, le sue tristezze, i suoi “silenzi” intercalati da parole “sospese” – rappresenti l’incisione della vita nelle pieghe e nelle piaghe del quotidiano “magico”?
“Il cavaliere di San Pietroburgo” è quindi la vita che, dalla brama e dai desideri, passa alla catarsi e al tramonto come anelito di speranza nel futuro, “tacite gementes tristam fortunae vicem” (Fedro – piangendo in silenzio il triste mutamento della fortuna).

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