Stefano Falotico in Fantasmi Principeschi ci induce con una premessa a dir poco terrificante all’interno dei meandri della sua follia narrativa, arpionandoci con le sue stravaganti conclusioni, riflesso fulgido e mai incrinato di una visione memore di antichi presagi cupi e sinistri che volteggiano indisturbati nella sua mente. È lì che, meditando e favoleggiando di perpetui risvegli e di immortalità, che i fantasmi ridono occhieggiando, e vivono per ricordare esclusivamente all’essere umano cos’è la vera vita.
Dagli angoli
reconditi dei castelli silenti, i loro respiri s’odono da
ritornati viventi ammalianti e ammantati da un
sobrio, rinomato baglior candido avvolto cupamente
o suadente nelle trasparenze languidamente
ambigue, loro, i fantasmi che, torvi, occhieggiano
un’umanità megera, traslucidi e gracchianti come
corvi neri e altisonanti, spiriti notturni delle
guardiane vetustà rinate anche sol d’essenza
intoccabile eppur di penombre appar(isc)enti fra
pareti asmatiche d’un mondo affranto.
Lo stile è un’altalena di metafore e di figure retoriche baldanzose che continuamente spumeggiano tra le righe, ossimori e iperboliche concezioni, poesia e canzoni, scatti ed ira che rendono la sua scrittura un racconto a voce piena, a tratti stridula e senza dubbio maledettamente romantica.
Funereo come la morte che invoca, lattiginoso come la luna che adora, la notte la fa da padrona in un turbine conturbante di minacce velate che giungono dalle essenze fantasma che si rivolgono con astuzia e perizia rendendo un po’ di ironia e di dannazione.
Le parole mescolate a dovere diventano unguento di terrori senza nome come se ignoti e innocenti fossero in grado di sanare le ferite della vita mortale.
C’è ipnotismo nello scorrere delle frasi, pungolate a dovere dalla rima e dal fluttuo fluido e continuo delle immagini evocate.
Il vocabolario dell’autore è vasto e particolareggiato, tutto è giocato tra l’evanescenza e l’apparenza, sulla paura e l’orrore e sempre l’immancabile riflessione della coscienza e dell’anima.
La prosa poetizzante è scandita da racconti rinchiusi in gabbie di capitoli che presentano personaggi noti alle prese con le loro caratteristiche principali, come Dario Argento che diventa l’incarnazione del concetto di paura tanto abissale quanto primordiale.
Perché io sono immortale anche se non ancor
(non) morto, sono il regista di Profondo Rosso, io
sono Dario Argento. Della paura il maestro per
eccellenza, la suspense (s)carnificata dei vostri terrori
più profondi.
Spunta il Joker perfettamente delineato dalla descrizione impressionante e filiforme.
Joker dal sorriso horror e sguaiato a sbranarvi, ché
vi pentiate in tal mo(n)do sconcio e orrido d’averlo
così nel cuor suo intimo, quand’era ancora infante e
innocente, lacerato e sporcato, porci dell’assurda,
orrenda cattiveria “onnipotente” da maneschi,
impuniti prepotenti. Vi sostituiste a Dio e lo ardeste
(in)colpevoli.
Le parole si annidano in quadrati immaginari fatti di lettere e parentesi, perché ogni concetto rimanda a qualcos’altro.
Ma chi sono questi fantasmi?
Senza speranza, fantasmi cittadini che spu(n)tan
da tombini floridi di bagliori glaciali,
impressioni(stici) del lor danzar nel vuoto pieno, in
apnea, appena appena a galla, “galerizzati”, sciocchi
o sol (in)visibilmente sc(i)occanti, signori mansueti
con l’aplomb maestrale della nobiltà “farlocca”,
scombiccherati, pastrocchi ch’appaiono a f(r)asi
mozzate, abitanti in macabri castelli sgretolati, dai
ponti levatoi che “albeggian” (s)tirati, striatissimi nel
malinconico gracchio fragile, gracilissimo di sere
discendenti, infernalmente caldeggianti.
Poi Clara la bambina fantasma che crea un’atmosfera inquietante e spaventosa perché il linguaggio è capace di rendere il clima narrativo torbido, sinistro, spettrale, maniacale e perduto nei recessi indiscriminati di questi esseri senz’anima.
Fantasmi Principeschi è una prova riuscita, un esercizio di stile che mette in evidenza le potenzialità puramente formali dell’autore che si destreggia bene con le parole, avvantaggiato probabilmente anche dalla tematica a lui molto cara della notte, del buio, della luna. Quell’evanescenza fisica e mentale che tanto lo alletta, quelle ombre che non incutono timore a colui che le racconta ma bensì che lo affascinano come una bellissima donna dalla pelle diafana e dagli occhi dell’abisso. Il senso è un desiderio di affermazione di questa dimensione fantastica permeata inevitabilmente di nostalgia ma non per questo priva di un piacevole senso di scoperta.
L’autore come i suoi intrepidi fantasmi è: lastrato di principesco ardore, fuggo, ruggisco, fuggiasco o vigliacco, fiacco o ancora non stanco.
E dunque Fantasmi Principeschi, buona interpretazione di poesia in prosa, evoca la dimensione passionale dell’autore per queste essenze prive di sostanza ma non per questo prive di piacevole evanescenza, sentore e ribellione. I loro atteggiamenti, ripresi più volte, sono selvaggi, indomiti, oltraggiosi, menefreghisti ma anche perdutamente innamorati della loro condizione e di quell’oscurità che li rende i signori della notte.
Pieno di visioni e di sogni, accarezzato da strani e stranianti incubi, i fantasmi non hanno bisogno di presentazioni, e qui, in questo libro, libero e libertino, il loro splendore notturno scintilla di prepotenza e martirio.
“Soffian” voraci da lapidi esangui, brillan
entusiasti nel buio delle estati, estatici, taciturni,
diurni e serali, imprendibili, tutti assieme o solitari,
non acchiappabili e “sottili”, poi densi, cinerei e
“cervi”, tra liane e boschi di fate, son i fantasmi!
di Antonietta Mirra