Mister Atlantic City, un mio romanzo che, di convergenze cinematografiche e letterarie, omaggia i grandi classici della Settima Arte
Ebbene, ho pubblicato un altro libro. Perché, in quanto prolifico come un vulcano sempr’eruttivo, mai domo, affamato di laviche emozioni, so sciogliermi a calor della brace della mia stilografica “futurista” immersa nella tastiera ergonomica dell’uomo cavalcante sempre poderosi, lindi e titanici lidi mentali e, a “sommersione-riemersione” di potenti crepitii del mio cuore ardimentoso, tagliandolo di ferite brade a sacral radice della mia romantica coscienza sapidamente naufraga nei sogni al fin che mai si spenga nella lascivia robotica dei morti viventi, gemo e germinerò sempre nel partorire nuove opere splendenti. Poiché l’uomo adattatosi all’abitudinaria pigrizia della routine giornaliera, prima o poi, s’accascia e perde i colpi. Mentre io metto a segno, per via delle mie (termo)dinamiche accorate all’anima turbolenta, scalciantissima e vivida come un diamante però con qualche grezzo angolo non smussato e non lo smusserò, mio “musetto” borghesuccio, in quanto la perfezione è solo l’utopia degli stolti, sì, metto a segno “pugni” di rinomanza stilistica degna dei grandi combattenti, intarsiati in una prosa ribalda, “pugilistica”, veloce e squittente come l’enorme Muhammad Alì, rapida come un gancio sinistro di Rocky Balboa a stenderti quando meno te l’aspettavi, poi schietta in retroguardia a parar i fendenti dei furbi e quindi via ancora di scaltrezza a imprendibile agganciarti e, sganciandomi dalle regole vetuste del tradizionalismo barboso, infierir sui vili mai creativi per ascender paradisiaco nell’empireo dei fighter della propria anima da falchi, un’anima intrepida, selvaggia, giammai stanca. Mi affrangerete con assalti indignitosi al mio decoro dietro le facili offese da chi si “batte” in una vita (s)comoda da impiegatini ma rafforzerete soltanto giocoforza, ah ah, il mio orgoglioso, sempre più agguerrito cantar fuori da ogni corte da damerini. Io, sì, conquisto la mia dama cantandole serenate fuori da lunghi nasoni vostri di gambe corte in bugie ipocrite e nel mio corale abbracciare quelli come me, come Nick Joad. Protagonista di questa triste, virtuosa, funambolica, precipitevolissimevolmente gagliarda favola nera dolceamara, da cantastorie come Bruce Springsteen.
Ecco la sinossi, chi non la capisce o, peggio, non vuol capirla così come s’ostina a volermi buttar al tappeto fingendo di non capirmi, è sol che un asino che io invece “carpisco” al volo e di jet getto al tappeto. Ring(hiando) da eye of the tiger, in quanto io sono il Survivor! Ti rigetterò sempre, villano, gettandomi nella mischia a mia grinta muscolosa!
Notte aromatica, non so se romantica. Tempestata da corvi che, sventolanti nell’alto dei cieli, il loro roseo ma ambiguo colorito, gracchiarono morendo sugli occhi appisolati degli avventori d’un bar.
Nick Joad, forse il fratello titanico del fantasma d’una celeberrima canzone di Bruce Springsteen, l’uomo che vive d’un sogno a occhi aperti, o di un roboante, fervido incubo. Il suo incubo migliore sarà sfidare il proprio demone ad Atlantic City. Un eterno duello che lo tormenta ma, nella sua pelle turbolenta, Nick Joad respira nel vento. Pugile in perenne, interminabile attesa. Ché il cielo delle sue ansie e dei suoi imperscrutabili patimenti, lastrato d’una visione salubre di gioia salvifica, miracoloso restauri l’antico, indelebile torto. E volerà paradisiaco ad agguantare la sua preda, laddove gli apparì diabolica di lungo, perturbante, angoscioso sonno immortale.
E ora, solo per voi, amici miei prodi, in “omaggio” l’introduzione più in regalo tutto il capitolo uno…
Eh sì, bando ai vigliacchi, qui si respira forza librante issante il coraggio dei vinti e dunque di chi lotta sfrenatamente per (av)vincere senza mai dar(si) tregua.
Le sponde inebrianti delle stagioni aride dell’amore s’intinsero nelle fosche scremature dei più furenti e bruni tramonti. Ove l’oceano lecca le palpebre agonizzanti dei suoi squali, l’intorbidisce in fluidi venosi d’ondosa riva marina combaciante con l’America tutta. Le aquile sventolano profumate il pallore degli indiani uccisi dallo storico massacro e i virtuosi piangono gli eroi crollati in battaglia. Nel putiferio di quell’infuocante morsa, i clandestini del loro sbilenco destino combattono agguerriti nelle palestre d’epocali dolori mai avvinti.
E le iridi si tergeranno sanguinanti nella catarsi sognante di Atlantic City?
On city by the sea,
revenge is a dark match
bigger than life
1.
Il crocevia del bieco plenilunio opaco
Notte aromatica, non so se romantica. Tempestata da corvi che, sventolanti nell’alto dei cieli il loro roseo ma ambiguo colorito, gracchiarono morendo sugli occhi appisolati degli avventori d’un bar. Quasi tutti macilenti, così come gli abitanti di quella spuria locanda. Arsa in alcol a me indigesto o forse troppo piacevole alle labbra. Spugne ch’espugnereste dal vostro raggio visivo, ma che mi strizzan di fegato simpatico, la loro bocca traboccherà sempre assieme al mio gaudio in euforico brindar con loro al piacere di deglutirci così. Come siamo. Gonzi ed avventurieri, eroi di un’era da cavalieri. Forse, ad Alcatraz, ove mi dissero che un certo Clint evase profetico al motto apocalittico d’un miracolo liberatorio. O qui, in questa latrina delle merde fatte cazzoni.
Un postaccio, pieno di rancori e lotte vanagloriose da falliti a malincuore di nostalgia che non so che effetto fa. Ove quando ci s’ubriaca, l’esistenza si fa ancora più amara perché è lucida di verità a sputarsela in viso. Incagniti, stronzi, con dei chili da svuotare dalle palle aggressive contro la moscezza che a me fa ribrezzo. E la brezza là fuori…
Poi, il mio occhio posa la vista sull’unico tizio davvero ancor sveglio e vispo. Robusto, sbronzo anche lui ma decorosamente pregno di whisky. Che dà proprio nell’occhio. Uno che ti conviene non prender a botte e che non borbotta, soprattutto.
Gli specchi viaggiano laconici su ombre marmoree di cadaveri nostri dei tempi ignoti…
Perdonate tale mia digressione che, scalando le vette umorali della mia astrusa e bellissima astrazione, così accigliato mi rivolgo allo sguardo del nostro beniamino, non so se amato o se lo amerete come io ora me ne son già innamorato. Qui, fra questi mesti, turbolenti liquori, vago d’occhi perlustranti l’invaghirmi d’anima appaiata a quest’uomo strano. Casualità degli incroci.
Cosa scorgo di lui? Un torturatore forse della sua psiche, un commovente camaleonte che indossa fiera pelle di serpente e si muove, anche fermo, sibillino di sigarette Chesterfield fumate di traverso, come un verme che ha la dignità del suo portamento, altezzoso, singhiozzante il rancido di tutto quello che avrà visto, come te o me, assieme festosi siam tutti perdenti di razza, e pendiamo da quel che sarà una vita di secchiate di stronzi.
Caparbio? Per il cazzo. Fresco di rasatura. Neanche per il culo della camicia non sfondata. Secco. No? Grosso come i muscoli d’un greco Dio vestito di pugni lesti in zigomi di cuoio e mente veloce come un raptor.
Mi ricorda, non so perché, Marlon Brando di Apocalypse…
Per come il suo volto, maturo e incassato in un corpaccione quasi spiritualmente intoccabile, vetustà immane da Dio inviolabile, si raggruma tutto nella potenza ferina eppur angelica d’occhi nerissimi. Come se, alla nascita, sin dal suo primo fiero e fievole respiro, fosse stato baciato da un cherubino. Un dipinto dell’astrazione sua e della mia così stramba immaginazione?
Sì, sta seduto, beve come una spugna ma par non accusare nessun colpo. Come se fosse davvero impenetrabile, un fantasma fra tanti spettri, fra tante ombre e luci, soprattutto sue. Tramontante ma sopravvissuto a qualcosa. Come se stesse celando qualcosa, come se nella sua anima racchiudesse un mistero che va oltre la segretezza della sua figura ectoplasmatica, del suo ombroso figuro.
Taciturno, zittissimo, beve, continua a bere e pare che se ne freghi.
Poi, accenna al barista, con un cenno impercettibile, altro…
E, mentre smuove le labbra in un vedo-non vedo di labiale perfettamente invisibile, sembra che stia pronunciando ciò… udite bene, aprite le orecchie per intenderlo…
Il suono nostalgico di qualcosa ch’è andato perso e non tornerà, non può tornare né credo voglia(te) che torni.
Un rapimento della mistica delle sue ermetiche, impressionanti iridi. Accigliate, alla torva simmetria rugosa d’una fronte spaziosa, come la vastità imperturbabile di Brando…
Mormorante al gregge di pecore… venite a me, ungendo le mani non caste degli sconci peccati di cui l’umanità sempre si macchierà. Marceremo, non marci ma illuminati dal chiarore evanescente della soave limpidità, attraverso le tenebre di questa folle umanità me(ge)ra. In congiunzione con la ricerca parsimoniosa d’alte, via via più spiccate, nostre nevrosi. Iridescenti ai baci nel marmo cheto del ruscello nostro a superbia dell’elevata divinazione. In nowhere, navigheremo d’ere eroiche, d’intrepidezza feroce. Genesi d’ogni orgoglioso amore divelto dall’averlo arso nell’apparente aridità ch’è invece divinità. Gemendo genuflessi, piangeremo prima, io già piansi e maestro vi tergerò la pioggia lacrimosa come la carezza di Dio alla Madonna, poi, inchinati all’osannante celebrarci addolorati, vivremo e vivrete sazi. Perché, solamente nell’empia essenza della profonda vacuità, noi e voi saremo felici ed eter(n)i.
Disgiunti dalla frenetica goliardia d’un Pianeta già invaso, alle origini erronee della scintilla mostruosa, da quel disgustoso invero amarsi finto che io combatterò sin da quando decisi di vincerlo e non perire dietro l’illusoria vitalità di tale putrida e rivoltante, triviale viltà.
In tanti tentarono di dissuadere questa mia visione della vita, tacciandomi di follia, ma io son ancora più convinto d’ancorarmi alla psicosi totale, a istruzione delle autodistruzioni nostre.
Io ho sempre odiato, sin dall’età del discernimento della prima adolescenza a me già foriera d’elevatezza grandiosa, ciò che volli e vorrò con infermabile volontà crescente.
L’ascesi di quella che chiamate, con enorme altra spaventevole superficialità, pazzia.
Io vi vedo invece la forza del tuono più acuminante e universale, ché Dio si nasconderebbe per la vergogna d’aver solo osato pensare di crearmi.
Io odio, perché nacqui diverso dalle vostre carni, e quindi insisto nella repellenza oscena. Con incredibile spirito di sacro affrangermi perché soltanto soffrendo io vivo.
Il resto è la vostra merdosa sopravvivenza. Ché oggi avrete da lamentarvi per altre inezie e domani vi crogiolerete alle ridicole rugiade delle vostre commozioni. Emozionali soltanto all’unta, presuntuosa sapienza dei po(ve)ri.
Questo è Nick Joad, questo è il suo nome. L’avrei imparato molto tempo dopo ma nel frattempo questo era, così almeno appariva. Un’aura di seducente, ammaliante ingombrarlo del suo stesso personaggio, avvolto nell’ombra dei suoi contorni.
In mezzo ai morti, o forse lui il primo morto ma vivo, almeno.
Poi, devo dirvi subito un altro paio di cose. Dietro questa maschera da tiratardi e gaglioffo bastardello, ravviso un uomo scacciapensieri. Avete letto bene. Uno di quei tizi che sarebbe meglio evitare, non incrociare ma che… se ti caccia un pugno piazzato, il resto è sconquasso e gran applausi.
Scroscianti.
Firmato naturalmente Stefano Falotico